
La Luna Mancante
(Dagli appunti del laboratorio sullo spettacolo “Macerie”, Brasile, primavera 1998).
«…Come spesso accade quando ci si allontana dal punto di vista consueto, un richiamo, un segno di qualcosa che siamo ci trova e ci conduce. La terra di nessuno attorno a noi, strappata alle tribù indios, contesa e distrutta che attraversiamo ci ha riportato alla mancanza di terra che fa parte della nostra storia di gente del sud. La riflessione che sta animando il laboratorio è la necessità di inventarsi un’identità quando non c’è un passato integro in eredità, quando la sua conoscenza è negata perché tutto ciò che ad esso apparteneva è stato distrutto. Mentre la scrittura e le improvvisazioni sceniche animano “fantasmi”, Fabio accumula oggetti. Il suo lavoro creativo si dirige silenziosamente dai vuoti che la scrittura lascia in attesa della presenza dell’attore, alla vera e propria “costruzione di macerie”…».
Scilla, 1999. Ho rivisto “Undici Lune”, il prodotto della drammaturgia personale di Fabio nata all’interno di quel gruppo di lavoro e vi ho ritrovato una scrittura dello spettacolo. Non il testo, ma tutti gli spunti nati lungo il processo di creazione. “Macerie”, laboratorio che si è soffermato sul terremoto con cui la storia del sud in cui viviamo si è affacciata al novecento, è stato il lavoro di un lungo anno: una miniera aperta in cui ognuno scavava portando alla luce le mancanze essenziali.
Nella scrittura di aria ritrovo il “mondo orizzontale”: immagini di una terra sepolta in cui gli uomini sono segni sommersi. In una dimensione che si espande per un breve attimo, tra un tramonto di fuoco e un’alba di lutto, le uniche figure umane si intravedono sotto la stratificazione di colore su colore. Non scompaiono, ma come spettri non condividono la dimensione più visibile. Lontano da vele che galleggiano sul mare, lo stesso che ha inghiottito il sole spezzato, ci sono Odisseo e i compagni. Fabio ha chiamato “fuga dal Ciclope” questa serie di segni guidati dall’ariete che nasconde i fuggitivi, ma la cultura di disfatta dei nostri luoghi che altrove è divenuta mito rivela nelle pagine di Fabio la sua crudeltà: le forme umane non sono mai diritte, protagoniste. Sono corpi deposti, è il mondo disteso delle macerie. Anche l’uomo armato in riva al mare che si profila in un quadro viene spazzato via, segno dell’inerme difesa contro eventi ineluttabili. Le sagome esili, stilizzate, sono raffigurate come note perse da un pentagramma che trattiene solo il silenzio degli accordi. Nella scrittura di aria, l’ambiente rivela tracce flebili. Alla fine il tempo si richiude, lo spazio si satura e si condensa inghiottendo del tutto le figure, fino a farle scomparire.
Rimangono gli occhi, che Fabio ha affidato alle pietre. Sguardi fissi e senza vita. Per colui che ha scolpito la materia sono elmi, ma noi leggiamo le parole mute e i corpi mancanti che non hanno avuto difesa. Gli occhi guardano, imprigionati nella stasi di un passato paralizzato. E’ la scrittura di pietra, la vita stessa impressa dentro la terra.
Da questo mondo descritto, da questa fine o creazione che è aria e pietra, Fabio fa improvvisamente nascere delle maschere. Come se ne fosse una conseguenza necessaria, il teatro è il terzo elemento. Prende forma nelle maschere nude che indicano (l’assenza di) vita. Contengono così l’immobilità della pietra e i contorni pieni della leggerezza dell’aria. Aspettano ciò che hanno perso: lo sguardo, la voce. Sono mitologia, tradizione, memoria. Sono macerie di una storia che è sepolta al sud. Il sud dell’identità dispersa nell’emigrazione, delle vite confuse dalla guerra come caos attraverso cui le linee della nostra esistenza si disperdono per poi riemergere in una dimensione diversa. Ma anche la realtà che scompare, che provoca vuoti, lasciando buchi nella memoria e cicatrici nello spazio visibile: i collassi improvvisi del terremoto. Custode di questo tempo, silenziosa, una marionetta dalla forma integra e dalle vesti bianche. Scolpita nel legno, è una figura femminile, apparentemente arida, le labbra serrate e i pugni chiusi. Testimone imperturbabile di una storia infinita.
[Dallo spettacolo:]
“A quelli che hanno perso lo stupore, e con esso lo sguardo,
non sorprenderà che io danzi immobile con il vento.
Sono parte dell’ordine invertito,
delle risposte senza domande,
dei fiori senza radice,
dei giorni senza passato.
Le pagine strappate si sono confuse,
le storie non iniziano…e non finiscono.
Si intrecciano all’infinito,
e non raccontano niente.”
Maria Ficara
Autrice della drammaturgia e testo “Macerie”
Teatro Proskenion, 1998.
Scrivi un commento